Spesso il dibattito politico italiano ha l’abitudine di deviare su problematiche di secondo-terzo piano. All’opinione pubblica si cerca di far capire che invece si tratta di questioni di vitale importanza che se risolte sarebbero foriere di risvolti più che positivi.
Quando dunque la politica vuole distrarsi o distarci, sposta l’attenzione sulla legge elettorale. In genere funziona così: la legge elettorale in vigore siccome fa schifo crea una politica schifosa; mentre la legge elettorale futura è il sol dell’avvenire. In certi casi ciò corrisponde al vero, ma in verità molto di rado. In genere la legge elettorale ha poche o nessuna colpa sull’andazzo della vita politica, mentre spesso o sempre è colpa degli eletti.
Di colpo mentre le borse bruciavano miliardi e Berlusconi non sapeva che pesci pigliare, si è rianimato il dibattito sul che fare del cosiddettoporcellum, la legge elettorale che da quando è entrata in vigore nel dicembre 2005 non ha mai goduto di grande sostegno. Il meccanismo ideato in effetti è cervellotico e truffaldino in più aspetti e può dare esiti diversi a seconda di come le forze politiche si coalizzano o meno.
Visto comunque che l’impianto formalmente proporzionale non era comunque malvagio, il 10 giugno 2011 Stefano Passigli e altri hanno proposto 3 referendum per rendere il porcellum una legge elettorale democraticamente accettabile abrogando il premio di maggioranza, le liste bloccate e l’indicazione del capo del partito o della coalizione, e prevedendo un unico sbarramento del 4%.
Non l’avessero mai fatto! Il comitato promotore è stato attaccato da più parti fino a quando il 4 luglio Arturo Parisi e Walter Veltroni gli hanno contrapposto altre due proposte di referendum per tornare alla precedente legge elettorale maggioritaria del 1993.
Il 7 luglio Bersani decide di ricompattare il Pd proponendo a entrambi i comitati di smettere di raccogliere le firme e lavorare a una riforma elettorale per via parlamentare. Passigli accetta la tregua, gli altri invece tirano dritto e conquistano dalla loro parte anche Di Pietro, Vendola e Segni e tutti insieme ad oggi hanno già raccolto oltre 400mila firme di cittadini che in buona parte sono convinti che tornando alla legge elettorale del 1993, i cittadini torneranno ad avere un parlamento più democratico con parlamentari non cooptati ma scelti liberamente a giudizio dell’elettore. Niente di più falso, visto che il maggioritario rappresenta solo il più forte da scegliere in liste che non permettono di esprimere alcuna preferenza. Così si propone di sostituire una porcata con una merdata. Tornando al 1993 e alla legge elettorale che ha creato la Seconda Repubblica, si ripropone un sistema elettorale ottocentesco, da italietta liberale, quando in Parlamento facevano il bello e cattivo tempo nobili di ogni sorta.
Quel che più stupisce non è certo la presenza di un antidemocratico storico come Mariotto Segni, quanto la presenza di alfieri del progresso come Di Pietro e soprattutto Vendola. Passi Di Pietro la cui formazione politica è di estrazione moderata, ma Vendola è addirittura in contraddizione col suo passato di deputato, quando con tutta Rifondazione Comunista non votò mai a favore del maggioritario.
È evidente che ancora una volta è prevalsa l’idea non di spingere per una legge elettorale che garantisca al meglio tutti, destra e sinistra, piccoli e grandi partiti, ma quella che ci si illude farebbe più comodo, fosse pure per una sola e breve stagione politica.
La politica fatta di tornaconto spicciolo segna dunque un altro punto a proprio favore e mi spinge con la memoria fino alla primavera del 1979, quando Enrico Berlinguer, segretario generale di un Pci al 30%, bocciò con forza l’idea democristiana (sostenuta già allora da Segni) dell’introduzione del maggioritario a favore della conservazione del proporzionale addirittura senza sbarramenti. La questione per il Pci non era né tecnica né burocratica, né tanto meno di convenienza, ma di principio. Qualunque proposta diversa dal proporzionale puro, avrebbe consegnato un Parlamento meno democratico, anche se un Pci del 30% avrebbe avuto tutto l’interesse a scrivere una riforma elettorale che premiando di fatto i primi due partiti del paese, avrebbe consegnato più eletti e forse addirittura la maggioranza ai comunisti.
Propongo di seguito quindi il ragionamento lineare e da sincero democratico che fece allora Berlinguer ai lettori de l’Unità che segna una distanza siderale dall’attuale sinistra per il maggioritario incarnata da Idv, Sel e buona parte del Pd (Prodi e Veltroni in testa) e, almeno stavolta, non dalla Federazione della Sinistra, la quale ancora adesso invita a non firmare per i referendum pro maggioritario.
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Dell’on. Piccoli e della ingovernabilità
di Enrico Berlinguer
La più grave di queste proposte è venuta non da un uomo politico di secondo piano ma addirittura dal presidente della DC, on. Piccoli. Secondo questa proposta il partito che abbia conquistato la maggioranza relativa dei voti (ed è ovvio che la DC pensi a sa stessa) godrebbe di un premio di maggioranza talmente grosso da prendersi la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. A questo modo la DC considera che le sarebbe possibile garantirsi la certezza di farsi i governi e le leggi che più le piacciono, di fare le nomine che più le aggradano, e persino i presidenti della Repubblica che le fanno comodo, giacché gli altri partiti, anche se coalizzati tutti insieme, resterebbero sempre in minoranza in qualsìasi votazione delle Camere, dove la DC, da sola, avrebbe la maggioranza assoluta. Siamo dunque di fronte a una proposta che è persino più abnorme di quella della legge truffa del 1953 (giacché questa prevedeva un premio di maggioranza a una coalizione di partiti che avessero superato il 50% dei voti) e che rassomiglia molto alla famigerata legge Acerbo, con la quale, nel 1924, i fascisti e i nazionalisti, pur non avendo la maggioranza assoluta dei voti, si attribuirono la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera dei Deputati.
Un principio una garanzia
Circola poi una seconda proposta, che noi giudichiamo egualmente Inaccettabile. Essa consiste nel fissare la percentuale minima di voti che un partito deve raccogliere — poniamo il 4% o il 5% — per poter avere suoi rappresentanti in Parlamento. Una simile norma porterebbe alla conseguenza che una serie di forze intermedie e minori — ad esempio il partito repubblicano, il partito socialdemocratico, il partito liberale e altre formazioni politiche le cui percentuali di voti si fermassero al di sotto del 4 o 5 per cento — verrebbero cacciate via dal Parlamento. E così le opinioni, le volontà di quelle minoranze di cittadini che hanno votato per tali partiti non conterebbero un’acca, non potrebbero «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale», come prescrive l’articolo 49 della nostra Costituzione in riferimento alla funzione dei partiti.
Le cause reali
La ingovernabilità del paese non nasce dal peso e dalla influenza di un Partito comunista attorno al quale si raccoglie il nerbo della classe operaia italiana e che è, ormai, un elemento costitutivo e indistruttibile della nostra società. L’ingovernabilità nasce essenzialmente dalle posizioni politiche finora assunte dalla DC (anche se non unicamente da essa) che mettono in un cul di sacco la situazione italiana.
Quali sono, infatti, queste posizioni?
Per ora se ne distinguono due. Le correnti e i gruppi più conservatori e integralisti vogliono che il partito democristiano si batta e si pronunci possibilmente per un ritorno al centrismo, ma almeno per una riedizione del centro-sinistra. Quali capacità e possibilità abbia una simile proposta e prospettiva di assicurare la governabilità del Paese è inutile dire: parlano per noi i lunghi anni di centro-sinistra con le loro delusioni, convulsioni e crisi a ripetizione.
Le correnti più democratiche e più aperte della DC, anche perché consapevoli della improponibilità attuale e della sterilità politica di una scelta esplicita per un ritorno al centro-sinistra, dichiarano, invece, che è valida ancora la linea del «confronto» e della solidarietà nazionale. Ma essa viene cosi impoverita e svuotata, e a tal punto indebolita e in definitiva vanificata dalla ossessiva ripetizione del no all’ingresso dei comunisti al governo, da renderla una linea senza concrete prospettive di realizzabilità.
Da un lato, non si vuole la partecipazione del PCI al governo, ma, dall’altro lato, non si vuole nemmeno il passaggio del PCI all’opposizione: in sostanza si vorrebbe formare un governo senza i comunisti ma in qualche modo appoggiato o sostenuto dai comunisti. Con ciò queste forze della DC escludono sia la prospettiva di governare l’Italia con una politica di effettiva e garantita solidarietà democratica e nazionale, sia la prospettiva di governare secondo il tanto conclamato metodo dell’alternanza, che dovrebbe prevedere il PCI (o la DC) all’opposizione.