Perché abbiamo una Camera di 630 deputati. 3. Il dibattito sulla riforma del Parlamento negli anni 1979-2016.

L’entusiasmo del quotidiano del Psi il giorno dopo l’editoriale di Craxi.

Il 28 settembre 1979 Bettino Craxi, segretario ancora precario del Partito Socialista Italiano, lancia con un editoriale sull’Avanti! l’idea di un Parlamento che inizi a riformare ogni ambito compreso quello costituzionale. È l’inizio di un dibattito che andrà oltre la vita dei protagonisti politici dell’epoca e che pare non essersi ancora placato.

Nella ricerca della via migliore per modificare la seconda parte della Costituzione, viene lanciata la cosiddetta Commissione bicamerale Bozzi (30 novembre 1983-29 gennaio 1985), la quale a proposito del numero dei parlamentari non formulò una proposta precisa, limitandosi a ventilare una Camera ridotta a 514 deputati (in ragione di 1 ogni 110 mila abitanti) e un Senato ridotto a 282 (in ragione di un senatore ogni 200 mila abitanti), oppure ridurre la Camera alla media delle camere basse di Italia, Francia, Gran Bretagna, Germania Ovest, quindi 480-500 deputati e da qui dedurre un Senato di 240-250 eletti secondo il consolidato rapporto di 2:1.

Ovviamente non se ne fece nulla e la successiva Commissione De Mita-Iotti (9 settembre 1992-11 gennaio 1994) neanche prese in considerazione l’ipotesi di modificare il numero dei parlamentari.

La Commissione D’Alema (5 febbraio 1997-4 novembre 1997) intendeva disegnare una Camera di 400-500 deputati e un Senato di 200 eletti, ma la questione non fu mai ulteriormente approfondita.

Il ddl costituzionale governativo firmato da Berlusconi, Fini, Bossi e Buttiglione prevedeva una Camera composta di 518 deputati elettivi e un Senato di 252 senatori. Al referendum confermativo del 2006 vinsero però i No col 61% e la riforma dunque non entrò mai in vigore.

Nella XV legislatura (2006-2008) Luciano Violante provò a condensare le varie proposte presentate alla Camera. Ne usciva una Camera di 512 deputati e un Senato di 186 membri eletto però non direttamente, ma attraverso i consiglieri regionali, provinciali e comunali. La durata brevissima della legislatura impedì di discutere la “bozza Violante”.

La successiva legislatura pur essendo durata un intero lustro non riuscì ad andare oltre un testo unico in Commissione alla prima lettura. In base a quel progetto la Camera avrebbe dovuto contare 508 deputati e il Senato 250 senatori.

La successiva riforma Renzi-Boschi non toccò la Camera di 630 deputati, ma vedeva il Senato ridotto drasticamente a 100 elementi non eletti direttamente dal popolo (74 senatori sarebbero stati scelti tra i membri dei Consigli regionali o provinciali autonomi; 21 senatori tra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori, nella misura di uno per ciascun Consiglio regionale o provinciale autonomo, 5 sarebbero stati scelti dal Presidente della Repubblica). Questa riforma fu bocciata per referendum nel 2016 col 59% di No.

Fra il 1963 e il 2020 solo tre riforme costituzionali sono state approvate (nel 2006, nel 2016 e nel 2019), ma finora nessuna è mai riuscita ad entrare in vigore per volontà del popolo sovrano mediante referendum.

L’unica riforma costituzionale che nello stesso periodo ha riguardato il Parlamento ed è stata approvata ad ampia maggioranza (tanto da non doversi ricorrere a referendum), fu l’introduzione nel 2001 di una quota di parlamentari da eleggere in rappresentanza dei circa 5 milioni di italiani residenti all’estero, ovvero 12 deputati e 6 senatori.

Perché abbiamo una Camera di 630 deputati. 2. La riforma del 1963.

La Costituzione approvata alla fine del 1947 era risultato un eccellente lavoro politico e di scrittura giuridica, ma aveva lasciato qualche insoddisfazione su qualche dettaglio. Per esempio su come era stato disegnato il bicameralismo e in particolare il nuovo Senato della Repubblica. Alla Costituente non erano mancate le voci di chi avrebbe preferito sposare il monocameralismo con la creazione di una Assemblea Nazionale, ma poi era prevalsa l’idea di salvare il vecchio Senato del Regno trasformandolo da camera del Re, cioè di nominati a vita dal sovrano, a piccola camera elettiva di anziani e della durata di sei anni, cioè di una durata intermedia fra i 5 anni della Camera dei Deputati e i 7 anni del Presidente della Repubblica. E poiché si era optato per un senatore eletto ogni 200 mila abitanti (contro gli 80 mila dei deputati), ne era uscita una camera di 237 senatori cui, eccezionalmente per la prima legislatura, furono aggiunti 107 senatori di diritto.

Tuttavia già nel 1953 si optò per lo scioglimento anticipato del Senato in corrispondenza della scadenza naturale della legislatura della Camera. Il nuovo Senato stavolta contò solo sulle forze dei 237 senatori eletti e di sei senatori a vita. Nel corso della seconda legislatura si notò che il Senato non riusciva a lavorare bene, soprattutto nelle Commissioni, per via del numero esiguo dei suoi membri. Nelle occasioni in cui Camera e Senato deliberano in Assemblea unica i senatori si sentivano troppo schiacciati dai quasi 600 deputati. Si cominciò così a parlare di una riforma del Senato che correggesse queste ed altre storture e introducesse una seria differenziazione fra i due rami del Parlamento tali da giustificare un sistema bicamerale.

La seconda legislatura (1953-1958) si rivelò infruttuosa. Una lunga riflessione, un disegno di legge costituzionale voluto dal primo governo Segni nel marzo 1957, un altro firmato dal vecchio Luigi Sturzo nel maggio 1957, ma non si andò oltre l’approvazione in prima lettura nel dicembre 1957. Tre mesi dopo le camera erano sciolte.

Il 9 luglio 1958 Amintore Fanfani chiese la fiducia per il suo secondo governo promettendo anche la riforma del Senato:

«Nel passato quinquennio non ebbe attuazione il giusto proposito di integrare il Senato. Le discussioni e i contrasti verificatisi, rimettano in luce la validità del primo disegno scaturito degli studi compiuti e fatti compiere da Enrico De Nicola (commissione di studio del 12-31 ottobre 1953, n.d.r.). Tornando ad essi il Governo intende presentare un nuovo disegno di legge, che, risolvendo il problema ancora aperto della equiparazione in durata delle due Camere, integri il Senato subito con aumento del numero di membri a vita nominati per decisione del Presidente della Repubblica ed in base a funzioni presidenziali esercitate in seno alle Camere; e prevede la possibilità di integrarlo ad ogni elezione di un congruo numero di senatori scelti in proporzione dei vati conseguiti da ciascun gruppo politico, in appositi elenchi comprensivi di parlamentari che già maturarono particolari titoli di esperienza e di anzianità».

Il progetto di riforma fu affidato al ministro della giustizia Guido Gonella che riprese il precedente ddl del governo Segni modificandolo secondo il dibattito che lo aveva accompagnato. Questo nuovo ddl costituzionale fu approvato dal Consiglio dei Ministri il 24 ottobre 1958 e inviato al Senato per iniziare il lungo iter legislativo. Qui l’anziano Luigi Sturzo oppose nuovamente un suo disegno di legge costituzionale. Fu così creata una commissione speciale presieduta da Enrico De Nicola per giungere a un ddl costituzionale unico. Fra agosto e ottobre 1959 muoiono prima Sturzo e poi De Nicola, ma la Commissione proseguì il proprio lavoro guidata da Giuseppe Paratore. Si giunse così a un unico ddl nel marzo 1960. Un anno dopo alla Camera, Flaminio Piccoli e altri propongono un ddl costituzionale per fissare a 600 il numero dei deputati ed evitare che la Camera diventi un pachiderma trascinato dalla crescita demografica dell’epoca. Così nel maggio 1961 il ddl del Senato viene modificato per inserire anche il tetto dei 600 deputati alla Camera e di 300 eletti al Senato.

Il nuovo testo è approvato dal Senato della Repubblica nella seduta del 16 gennaio 1962; viene modificato dalla Camera dei deputati nella seduta del 7 agosto 1962 ed è la modifica destinata a durare perché prevede una Camera di 630 deputati e un Senato di 315 eletti. Così modificato, il ddl viene nuovamente approvato dal Senato della Repubblica nella seduta del 21 settembre 1962. A questo punto non resta al Parlamento la seconda lettura definitiva che avverrà alla Camera dei deputati, a maggioranza dei due terzi, nella seduta del 30 gennaio 1963, e al Senato, sempre a maggioranza dei due terzi, nella seduta del 7 febbraio 1963. Undici giorni dopo il Parlamento è sciolto e la modifica costituzionale poté subito essere applicata.

In sostanza tutti i progetti di differenziare il Senato dalla Camera erano andati in fumo. La legge approvata stabiliva tre aspetti comunque importanti: 1) Camera e Senato hanno pari durata, 2) la Camera ha un numero di eletti doppi rispetto al Senato, 3) il numero dei parlamentari diventa fisso. Sul numero dei parlamentari, cioè, si era deciso di fotografare la situazione del 1963 e renderla immutabile, salvo – si diceva – che la popolazione in futuro fosse diminuita. A spiegarlo bene in Aula a Montecitorio fu il relatore, il democristiano Renato Tozzi Condivi:

«Secondo il rapporto fissato dalla Costituzione di un deputato ogni 80 mila abitanti, già oggi il numero dei rappresentanti del popolo in questa Camera dovrebbe essere di 630. Pertanto la Commissione della Camera non ha proposto di aumentare di una sola unità il numero dei deputati, che è quello che anche senza l’approvazione di questa legge competerà a questo ramo del Parlamento per le elezioni del 1963. Nessuna pressione di partito dunque ci ha portato ad accettare questa cifra, che deriva in realtà dall’ultimo censimento.
(…) La Commissione del Senato ha ritenuto (…) di fissare soltanto un criterio quantitativo, stabilendo, cioè, che il Senato dovesse essere rinsanguato attraverso l’immissione di elementi elettivi proponendo conseguentemente di portare a 300 il numero dei senatori, oltre ai senatori di diritto.
Noi in Commissione, quando ci siamo trovati nella necessità, in base alla legge ed alla Costituzione, tenendo conto altresì dei dati dell’ultimo censimento, di portare a 630 il numero dei deputati, abbiamo ritenuto di mantenere tra Senato e Camera il rapporto di uno a due; pertanto abbiamo portato a 315 il numero dei senatori, oltre a quelli di diritto, dal momento che si stabiliva per i deputati il numero di 630».

La modifica approvata nel 1963 è quella ancora in vigore, salvo vittoria del Sì al referendum del 20-21 settembre 2020. Ma la storia degli articoli 56 e 57 della Costituzione non finì 57 anni fa.

Sono davvero troppi i deputati italiani?

Non esiste un numero perfetto, deducibile scientificamente con chissà quale equazione, per stabilire quanto debbano essere i legislatori di uno Stato che si voglia democratico. Non esisterà il numero perfetto, ma esisteranno certamente numeri opportuni e numeri sconsigliabili se non sciagurati. Nessuno si sognerebbe di vedere la Germania o gli Stati Uniti e neppure la piccola Slovenia retta da un Parlamento di sette persone e neppure da duemila persone. Questo perché è facilmente intuibile che un Parlamento troppo piccolo sarebbe incapace di rappresentare la società che l’ha eletto, sarebbe più facilmente soggetto a prendere decisioni sbagliati e perché non basterebbe lavorare ogni giorno per 24 ore per far fronte a tutte le esigenze di una società complessa. Al tempo stesso un Parlamento troppo affollato permetterebbe sì, con una legge elettorale democratica, di rappresentare molto meglio la società, ma rischierebbe di perdersi in discussioni potenzialmente infinite rischiando di partorire la legge meditata al meglio nel momento ormai sbagliato.

Come dunque in tutte le cose della vita serve un certo equilibrio, lo stesso che nel dosaggio del sale fa la differenza tra un piatto di pasta sciapo e uno che sembra cotto in acqua marina. L’operazione di determinare il numero giusto di parlamentari per ogni Stato è dunque operazione sì inesatta, ma che richiede comunque la delicatezza e l’accuratezza massima possibile di un chirurgo, non certo i modi rudi del boscaiolo che accetta la legna.

Sicuramente un ottimo modo per capire al riguardo “come gira il mondo”, è quello di guardare all’Europa, la quale, pur nella sua nota eterogeneità, ha comunque una certa similitudine costituzionale di base. A parte il Vaticano, infatti, tutti gli stati europei si sono dotati di un parlamento per decidere le leggi del proprio paese e per controllare il proprio governo. Ciò può avvenire in modo più o meno efficace e diretto, però la forma democratica è patrimonio ultradecennale di tutti.

Se dunque limitiamo il nostro sguardo alla sola Europa, notiamo che in genere tanto più è popolato un paese, tanto più numerosi sono i parlamentari eletti. Non c’è un numero standard, ma c’è una tendenza chiara. Se poi lo Stato è federale o fortemente decentrato con ulteriori parlamenti locali, allora il parlamento centrale tende a essere sottodimensionato rispetto a quanto ci si aspetterebbe in uno Stato accentrato.

Inutile calcolare medie continentali fra paesi tanto eterogenei per numero di abitanti, tuttavia se guardiamo ai quattro paesi più noti per storia e importanza geopolitica nei secoli (Regno Unito, Francia, Germania e Spagna), notiamo che si oscilla intorno a un deputato ogni 100 mila abitanti.

L’attuale Camera dei Deputati italiana con il suo deputato ogni 98 mila abitanti è dunque in linea con questa tendenza, mentre se vincesse il Sì al referendum costituzionale del 20-21 settembre prossimi, allora si arriverebbe al rapporto di 1 deputato ogni 154 mila abitanti che metterebbe l’Italia all’ultimo posto in Europa dopo la Russia, la quale però ha caratteristiche peculiari ed è una solida federazione.

Perché abbiamo una Camera di 630 deputati. 1. Il dibattito alla Costituente.

La Camera dei Deputati, l’unico ramo del Parlamento eleggibile durante il Regno d’Italia, contò 443 membri dal 1861 al 1867, 493 dal 1867 al 1870, 508 dal 1870 al 1921, 535 dal 1921 al 1929, 400 dal 1929 al 1939.

I primi tre aumenti del numero dei deputati corrispondevano alla volontà di fare spazio nell’organo legislativo ai rappresentanti dei nuovi territori via via annessi al Regno: il Veneto nel 1866, il Lazio nel 1870, Trentino, Alto Adige, Friuli e Venezia Giulia nel 1918. La riduzione da 535 deputati a 400 fu invece la conseguenza della fascistizzazione integrale della Camera nel novembre 1926 con la conseguente sostituzione delle libere elezioni multipartito con il plebiscito alla domanda «Approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio del Fascismo?». Nel 1939 il regime di Mussolini andò oltre e sostituì la Camera dei Deputati con la Camera dei Fasci e delle Corporazioni per la quale non era prevista alcun tipo di elezione perché era previsto che potessero sedere di diritto nell’aula di Montecitorio i consiglieri nazionali del Partito Nazionale Fascista e del Consiglio nazionale delle Corporazioni. Dunque il numero e i nomi dei consiglieri nazionali variava al mutare e al ruotare delle cariche negli organismi fascisti al punto che nei suoi quattro anni di vita (cioè fino alla caduta del regime fascista) contò 681 deputati iniziali, ma vide sedersi in totale 949 fascisti.

La ritrovata libertà democratica portò all’elezione dell’Assemblea Costituente a suffragio universale finalmente maschile e femminile. Nel 1946 i Costituenti furono previsti nel numero di 573, ma ne furono eletti 556 per l’impossibilità di far votare gli italiani nelle terre di confine amministrate dagli Alleati. Quel 573 corrispondeva a circa 1 Costituente ogni 75 mila abitanti.

Alla seconda Sottocommissione della Commissione per la Costituzione dell’Assemblea Costituente il dibattito sul futuro art. 56 inizia il 4 settembre 1946 con la proposta del relatore repubblicano Giovanni Conti di eleggere «un Deputato ogni 150 mila abitanti» così da avere, in base alla popolazione dell’epoca, una Camera di circa 300 deputati. Conti motivava la proposta osservando che «la riduzione del numero dei Deputati deve essere considerata in relazione all’ordinamento regionale, che comporta la costituzione di assemblee con competenza legislativa».

In effetti un’Italia che si fondasse anche sulle autonomie regionali era una novità nella storia del paese di cui bisognava tenere conto, anche se poi l’ordinamento regionale previsto dalla Costituzione sarà attuato solo nel 1970.

Il 13 settembre si apre la discussione in Sottocommissione. Il democristiano Giuseppe Cappi propone un deputato ogni 100 mila abitanti (cioè 450 deputati) per due motivi: «dare una congrua rappresentanza regionale» e «utilizzare con maggiore ampiezza le capacità». Ma Conti insiste su 300 deputati. Il celebre generale Umberto Nobile eletto nelle file comuniste si spinge a chiedere una Camera di 250 deputati. Non manca chi propone di lasciare la materia fuori dalla Costituzione, mentre il demolaburista Aldo Bozzi propone di aggirare gli ostacoli fissando il tetto di un «numero di membri non superiore ai 450».

Il giorno dopo è più chiaro che il problema è prima di tutto non quale sia il numero di componenti ideale, ma quale debba essere il giusto rapporto fra abitanti ed eletti. Al riguardo il democristiano Aldo Fuschini osserva che «le popolazioni considerano sempre il Deputato che hanno eletto anche da un particolare punto di vista, per cui quel Deputato riceve di continuo dai suoi elettori sollecitazioni che non sempre sono per bassi servigi, come per lo più si dice, ma spesso sono dettate dalle improrogabili necessità di una data circoscrizione e costituiscono un comodo mezzo per intrecciare rapporti di maggior fiducia fra eletto ed elettori. Ma un Deputato non riuscirà mai a soddisfare le necessità di una massa di 150.000 abitanti. Sarebbe quindi più opportuno fissare un Deputato per non più di 80.000 abitanti, come è stato finora tradizionale nel nostro Paese».

Il comunista Vincenzo La Rocca non mostra passione per questi rapporti matematici e preferisce argomentare richiamandosi alla tradizione e alla funzione democratica della futura Camera, perché è qui «che veramente si manifesta la volontà del popolo. La tradizione, anche se a volte è una vis inertiae, non sempre dev’essere trascurata. Il popolo italiano è avvezzo ad avere 500 e più Deputati. Inoltre non è opportuno, in regime democratico, diminuire questo numero, perché a tutti deve esser dato il modo di far sentire la loro voce. Restringendo il numero dei Deputati, si potrebbe far sorgere il sospetto di essere animati dal proposito di soffocare la volontà delle minoranze». E pertanto invitò i colleghi a non andare oltre i 500 deputati.

Il relatore Conti replica a Fuschini e La Rocca ribadendo che un’Italia dove forte e nuovo sarà il ruolo delle assemblee regionali e dove anche il Senato sarà eletto (e non più composto da membri a vita nominati dal Re), permetterebbe di avere una Camera di 300 membri. E rispondendo in particolare a La Rocca sulla tradizione del 500, nota che «il popolo italiano disgraziatamente ha una sola abitudine circa il Parlamento: parlarne male; e con la nuova Costituzione occorrerà elevare il prestigio del Parlamento, al che si giunge per una via soltanto: diminuire il numero dei componenti alla futura Camera».

In Conti dunque prevale l’idea che i deputati debbano apparire come degli eletti, come una vera élite e dunque un numero ridotto di membri è necessario a questo scopo. Dalla sua parte può contare su Emilio Lussu, il fondatore del Partito Sardo d’Azione, che però oltre a confidare su uno Stato che promuova molto l’autonomia regionale, aggiunge un ragionamento più articolato e flessibile. Il timore di Lussu è che una Camera grande possa fare ripiombare il paese nelle corruzioni e nelle clientele del periodo liberale, per cui con «un gran numero di Deputati si potrebbe avere lo stesso fenomeno di corruzione a cui dava adito il sistema maggioritario: ogni Deputato si creerebbe una piccola o grande clientela divenendo Deputato a vita. Riducendo, invece il numero dei Deputati, si obbligherebbe il corpo elettorale ad una moralizzazione della vita politica; gli elettori si rivolgerebbero alle locali organizzazioni e farebbero capo al Deputato soltanto per questioni veramente importanti». La storia d’Italia successiva l’ha smentito perché la Camera di 630 deputati unita a una legge proporzionale riuscì a spingere gli italiani a un rapporto diretto coi partiti di massa molto più che col singolo deputato notabile. Ad ogni modo la proposta di Lussu fu di una un deputato ogni 100-120 mila abitanti. Se però, avvertì, «il principio delle larghe autonomie regionali non dovesse essere adottato, occorrerebbe elevare al massimo il numero dei Deputati».

È in questa occasione che si fanno strada altri argomenti come quello del costo economico eccessivo per lo Stato del mantenimento di tanti deputati. Ne accenna Nobile e il repubblicano Tommaso Perassi, perfettamente allineato al compagno di partito Conti, nota che «all’opinione pubblica farebbe assai buona impressione una riduzione degli organi dello Stato, anche in riferimento alla situazione finanziaria del Paese». Ma l’economista liberale Luigi Einaudi, pur favorevole a una Camera piccola, proprio sull’argomento economico riporta i colleghi alla realtà ricordando che se anche il Parlamento costasse 2 miliardi di lire l’anno, sarebbe ben poca cosa per uno Stato che aveva in quel momento un esercizio di 500-600 miliardi.

Nobile è anche smentito dal presidente della Sottoccommissione e suo compagno nel Pci Umberto Terracini, il quale non nasconde un certo scetticismo per un’Italia su base regionale o comunque fortemente decentrata, pur ritenendo giusto allentare il centralismo statale. Terracini teme si possa perdere lo Stato unitario, ma le sue obiezioni ai colleghi sono improntate a un certo pragmatismo:

«l’affermazione secondo cui un migliore funzionamento della Camera sarebbe assicurato se questa fosse composta di pochi membri perda di vista l’esperienza. Oggi ad esempio, si ha una Camera di circa 560 membri; ma le forze effettive, i deputati che effettivamente contribuiscono al lavoro della stessa, rappresentano soltanto una percentuale.
Se si stabilisse che la prima Camera dovesse essere composta di 300 deputati, si creerebbe un’assemblea nella quale probabilmente solo 150 membri parteciperebbero veramente al lavoro legislativo. Infatti l’elezione dei deputati non è, in sostanza, che una prima scelta fatta dalla massa degli elettori; ma una seconda ne viene fatta in seguito, sulla base delle capacità rivelate da ogni eletto nel periodo del suo lavoro legislativo.
D’altra parte il numero dei componenti un’assemblea deve essere in certo senso proporzionato all’importanza che ha una nazione, sia dal punto di vista demografico, che da un punto di vista internazionale. Non è, come ha accennato l’onorevole La Rocca, che si vorrebbe conservare l’attuale numero dei deputati per rispetto ad una tradizione, ma perché la diminuzione del numero dei componenti la prima Camera repubblicana sarebbe in Italia interpretata come un atteggiamento antidemocratico, visto che, in effetti, quando si vuole diminuire l’importanza di un organo rappresentativo s’incomincia sempre col limitarne il numero dei componenti, oltre che le funzioni. Quindi, se nella Costituzione si stabilisse la elezione di un Deputato per ogni 150 mila abitanti, ogni cittadino considererebbe questo atto di chirurgia come una manifestazione di sfiducia nell’ordinamento parlamentare.
Quanto all’osservazione fatta dall’onorevole Nobile circa l’alto costo di un’assemblea parlamentare numerosa, se una Nazione spende un miliardo in più per avere buone leggi, non si può dire che la spesa sia eccessiva, specie se le leggi saranno veramente buone ed anche se si consideri l’ammontare complessivo del bilancio in corso.
Personalmente, quindi, ritiene che il problema in questione non si sarebbe nemmeno dovuto porre: non tanto quello concernente la determinazione del numero dei componenti l’assemblea nella Costituzione, quanto quello della diminuzione di tale numero. Si sarebbe dovuto accettare ciò che poteva essere suggerito dall’attuale vita politica del Paese, vale a dire che esso assai opportunamente ha sentito la necessità di adeguare nelle ultime elezioni il numero dei suoi rappresentanti alla aumentata massa della popolazione».

La Sottocommissione è incerta su come procedere. La tentazione è di aspettare di vedere come saranno descritti nella Costituzione i poteri delle regioni per capire come dovrà essere il Parlamento nazionale. Il democristiano Pietro Bulloni propone un ordine del giorno che chiuda la discussione con la proposta Cappi di un Deputato ogni 100 mila abitanti. Il socialista Ferdinando Targetti chiede di abbassare la soglia a 80 mila. A questo punto il relatore Conti fa una concessione dichiarandosi disposto a ridurre la cifra da 150 a 125 mila.

Il costituzionalista democristiano Costantino Mortati con tutto il gruppo Dc appoggia la proposta Cappi, così pure Lussu. La Rocca rilancia il suo favore per la cifra di 80 mila, «perché ritiene che occorra rafforzare l’istituto parlamentare e dargli quella autorità che gli è necessaria per essere l’organo sovrano della Nazione».

Conti rinuncia alla sua proposta e si arriva così ai voti:
Votano a favore della proposta Targetti per gli 80 mila abitanti i Deputati: Bocconi, Di Giovanni, Fabbri, Lami Starnuti, La Rocca, Ravagnan, Targetti, Terracini.
Votano a favore della proposta Bulloni per i 100 mila abitanti i Deputati: Ambrosini, Bulloni, Calamandrei, Cappi, Codacci Pisanelli, Conti, De Michele, Einaudi, Fuschini, Leone Giovanni, Lussu, Mannironi, Mortati, Perassi, Tosato, Uberti, Vanoni, Zuccarini.
Si astiene dalla votazione il Deputato Nobile.
Dunque la proposta di eleggere un Deputato per ogni 100 mila abitanti ha riportò 18 voti favorevoli contro 8.

Tre mesi dopo si specificherà che viene eletto un deputato anche per «frazioni superiori a 50 mila abitanti». La discussione però non è finita perché viene riaperta il 27 gennaio 1947 nella Commissione per la Costituzione in seduta plenaria dal Dc Fuschini:

«la diminuzione del numero dei membri della Camera dei Deputati si risolve, in ultima istanza, in una diminuzione della sua autorità. È, peraltro, da considerare che in Italia il numero dei Deputati è stato calcolato sulla cifra che, come fu rilevato in seno alla Commissione per la legge elettorale della Costituente, non era mai salita al disopra di 60.000 abitanti. Tale cifra fu elevata a 75.000, in considerazione del fatto che avrebbero partecipato alla vita politica anche le donne.
Ora, in base alla cifra di centomila abitanti, come si propone nel progetto, si avrebbe una Camera di 420 a 430 Deputati. La diminuzione sarebbe, a mio parere, eccessiva. La Costituente ha avuto 556 deputati: ma anche le Camere normali non sono state mai inferiori ai 500 Deputati e si arrivò a 535, numero massimo cui si è pervenuti in periodo normale.
Propongo, quindi, di portare ad 80.000 il numero degli abitanti per ogni Deputato, così da avere all’incirca una rappresentanza popolare di 500 Deputati».

Udito ciò, Conti ha l’occasione per riproporre la sua cifra di 150 mila con i soliti argomenti aristocratici («non occorre che i legislatori siano tanti: è necessario che siano buoni. Non ritengo che il numero significhi rappresentanza esatta, autentica, genuina della volontà popolare; la volontà popolare la interpretano uomini onesti, sinceri»), ma riprendendo anche le obiezioni ai presunti costi eccessivi di un largo Parlamento ridotto a «comizio» proprio per la sua ampia composizione.

In soccorso di Fuschini si leva la voce di Terracini, per il quale

le argomentazioni contrarie esposte dall’onorevole Conti in realtà sembra che riflettano certi sentimenti di ostilità, non preconcetta, ma abilmente suscitata fra le masse popolari contro gli organi rappresentativi nel corso delle esperienze che non risalgono soltanto al fascismo, ma assai prima, quando lo scopo fondamentale delle forze antiprogressive era la esautorazione degli organi rappresentativi.
Quanto alle spese, ancora oggi non v’è giornale conservatore o reazionario che non tratti questo argomento così debole e facilone. Anche se i rappresentanti eletti nelle varie Camere dovessero costare qualche centinaio di milioni di più, si tenga conto che di fronte ad un bilancio statale che è di centinaia di miliardi, l’inconveniente non sarebbe tale da rinunziare ai vantaggi della rappresentanza».

Il demolaburista Mario Cevolotto interviene per aggiungere un’osservazione tecnica su come conciliare il numero dei parlamentari con la futura legge elettorale. «Qualora si adotti, come pare certo, il sistema proporzionale nelle elezioni della Camera dei Deputati, occorre considerare che la proporzionale non funziona bene se non con un certo numero rilevante di Deputati per ogni collegio; e allora, se si diminuisce il numero dei Deputati, bisogna aumentare l’estensione territoriale dei singoli collegi nei quali si svolgono le elezioni, altrimenti la proporzionale non funziona o funziona male. Questo aumento dell’estensione dei collegi, viceversa, non è opportuno, anzi l’esperienza insegna che sarebbe utile una riduzione. La diminuzione del numero di Deputati renderebbe più difficile fare poi una buona legge proporzionale».

Cappi tenta la mediazione proponendo un deputato ogni 90 mila abitanti, ma ai voti stavolta vince la proposta Fuschini: la Camera dei deputati nel Progetto di Costituzione prevederà una composizione di un eletto ogni 80 mila abitanti o per frazione superiore a quarantamila.

Il Progetto approda finalmente alla Costituente e qui il 16 settembre 1947 prende la parola l’anziano e prestigioso Francesco Saverio Nitti per scagliarsi contro l’eccessivo numero dei deputati. Era meglio uno ogni 200 mila, al più ogni 150 mila, polemizza il liberale, e cita come esempio luminoso gli Stati Uniti d’America coi suoi 435 deputati e 96 senatori. Ciò rialimenta le speranze di Giovanni Conti, nuovamente relatore. Il Costituente repubblicano ribadisce che «le Assemblee numerose sono Assemblee dannose al Paese» e cita a suo sostegno nientemeno che Cesare Lombroso per il quale «una folla anche la meno eterogenea, anche la più eletta, quando deve deliberare dà una risultante che non è la somma, ma più spesso la sottrazione del pensiero dei più».
Più interessante e pungente l’opposizione a Nitti del suo ex ministro Meuccio Ruini: «ho a disposizione dell’onorevole Nitti un quadro, dal quale risulta che se i parlamentari, i politicians, sono in minor numero negli Stati Uniti (e qualcuno se ne lagna, per il carattere “professionale ed oligarchico” che ne deriva), sono di più in Francia, in Inghilterra ed altrove». Ruini rileva che c’è un emendamento che vorrebbe alzare il quoziente di 80 mila a 120 mila, per cui «forse la cifra intermedia [di 100 mila] è la buona».

Il 23 settembre si arriva alla discussione finale. Antonio Giolitti per il Partito Comunista prova a far inserire nella Carta l’elezione della Camera con sistema proporzionale, ma fallisce. Ruini annuncia che il «Comitato preferisce stare al quoziente intermedio di 100.000». Conti a quel punto apre alla cifra di 120 mila. Si trova contro il Dc Renato Morelli per il quale «è certo che l’aumento del numero favorisce i partiti di massa e danneggia i partiti meno numerosi; favorisce i grossi agglomerati urbani e danneggia le popolazioni rurali». Anche Cevolotto gli è contro e ripropone le sue osservazioni sulla proporzionale per sostenere la cifra di 100 mila.
Poi prese la parola il segretario generale del Pci Palmiro Togliatti annunciando che tutto il gruppo comunista voterà per il quoziente di 80 mila:

«E questo per due motivi. In primo luogo perché una cifra troppo alta distacca troppo l’eletto dall’elettore; in secondo luogo perché l’eletto, distaccandosi dall’elettore, acquista la figura soltanto di rappresentante di un partito e non più di rappresentante di una massa vivente, che egli in qualche modo deve conoscere e con la quale deve avere rapporti personali e diretti.
Avremo una Camera che oscillerà intorno ai 550 deputati. Mi pare che sia poco male».

I Costituenti sono così chiamati a sceglier definitivamente fra il Progetto che prevede 80 mila, Nitti che propone 100 mila e Conti che punta a 120 mila.

Francesco Colitto con i qualunquisti, Angelo Carboni con i socialdemocratici del Psli e Virgilio Nasi con i demolaburisti si schierano per il quoziente più basso. Targetti con i socialisti e Giovanni Uberti con la Dc appoggiano l’emendamento Nitti. L’emendamento Conti è subito respinto. Si decide allora di votare l’emendamento Nitti a scrutinio segreto, ma anche questo viene respinto con 229 voti contrari e 133 favorevoli.

La questione è chiusa. La prima Camera nel 1948 avrà 574 deputati, la seconda nel 1953 ne conterà 590, nel 1958 la terza passerà a 596. A quel punto il Parlamento si deciderà a ridiscutere gli art. 56 e 57 della Costituzione.

Il denaro non va mai in quarantena

10 anni fa Oliver Stone ci ricordava che «il denaro non dorme mai». Non sapeva però che a quanto pare non va neppure in quarantena.
In queste settimane mentre chiudeva tutto e qualcuno si rinchiudeva in se stesso, qualcuno continuava a lavorare, ma non a distanza, ma sulla distanza, cioè su come continuare a fare affari anche quando non si possono fare più affari o quando comunque non dovrebbe essere una gran priorità. Cairo col suo celebre incitamento (a distanza) a fare dané era la manifestazione più autentica dell’alta borghesia ai tempi del coronavirus. Presto abbiamo visto progressivamente la pubblicità televisiva popolarsi di spot che fanno riferimento proprio alla pandemia, quindi creati quasi al momento, anche un po’ alla buona, l’importante era che non ci dimenticassimo che bisogna continuare a consumare anche se quasi tutto è chiuso e più di qualcuno non ha più un reddito. La parola d’ordine per le masse “vivi, consuma e muori” è sopravvissuta per contrastare una più saggia “sopravvivi, aiuta e resisti”. È in fondo la logica alla moda della «resilienza» a tutti i costi, cioè dell’apologia dello spirito di adattamento a tutto pur di non cambiare nulla, pur di non fare i conti con ciò che non va.
Ancora non sappiamo quanto ci vorrà per consegnare la Covid-19 alla storia, eppure nessun padrone vuole prendere in considerazione l’ipotesi della pausa di lunga durata. E se ciò è umanamente comprensibile nella piccolissima borghesia dei bottegai, ci si dovrebbe chiedere che problemi ha la multinazionale e multimiliardaria Disney da dover progettare e vendere a rotta di collo delle mascherine griffate a 5$ l’una.
C’è poi il padronato italiano, piccolo e grande, che si precipita a comprare plexiglass da spalmare ovunque per poi andare a insultare ogni potere pubblico che gli impedisce di fare cassa. Plexiglass, mascherine, abrogazione dei gesti di affetto ché tanto tanto era solo ipocrisia, e si può tornare a fare affari, facile no?
Ovviamente l’estrema destra ha subito capito da che parte stare e come al solito sa che bisogna lisciare il pelo all’esasperazione bottegaia per far contento il grande capitale ed esorcizzare ogni altra ipotesi sanitariamente più sicura per tutti, ma economicamente svantaggiosa per pochi, soprattutto se si arrivasse a prevedere un timidissimo affidamento dell’economia allo Stato. Ecco quindi la Lega tornare a fare tutta la “democratica” attaccata al Parlamento e il Renzi più ganassa che mai che evoca spettri e minaccia di morte il suo governo: è il derby di chi vuole essere il miglior amico del capitale, cioè il protagonista politico prescelto da lor signori per mettersi in salvo nel futuro prossimo a costo di portare alla catastrofe il paese e la stessa democrazia italiana.
Trump fa lo stesso, ma lì è lui il governo e quindi deve fare di più: ostentare che la mascherina è per smidollati rifiutandosi di indossarla, ordinare di riaprire il prima possibile e poi rovesciare ogni responsabilità della propria impreparazione alla Cina crucca e assassina per definizione. Fare causa alla Cina per un virus sarebbe come fare causa alla Libia per la pioggia sporca di sabbia sahariana, ma l’importante è odiare sempre la persona sbagliata per non fare mai la cosa giusta.

Cosa spaventa gli industriali più del virus

Comunque vada, non potrà andare tutto bene. L’ho già scritto. La nostra cosiddetta società del benessere è un meccanismo inefficiente in tempi di vacche grasse, figuriamoci quando arriva un naturalissimo virus a fare il classico granello di sabbia nell’ingranaggio. Salta tutto! Che fare per rimediare? Meglio restaurare o cambiare? Meglio liquidare o progettare? Meglio finire di consumarsi negli scontri per l’ultimo boccone o accordarsi per qualcosa che vada a beneficio di tutti? Le ricette possibili sono tante e ognuna è fatta per fare gli interessi di alcuni e non di altri. Da qui l’ansia e la preoccupazione fin dai primi di marzo di certi industriali che vorrebbero approfittare della situazione per dare l’ultimo assalto e saccheggiare il saccheggiabile con leggi compiacenti e meno controlli. Vorrebbero, ma poi si accorgono che c’è chi parla di riportare lo Stato nell’economia e allora gli viene il panico e si accontenterebbero che tutto resti com’è. Urlano “no a una nuova IRI!”, “non abbiamo bisogno dello Stato-imprenditore!” e giù tutto il rosario neoliberista che annuncia l’apocalisse se non vengono ascoltati. Renzi, da mediocre bulimico di potere in cerca d’autore, ne approfitta per lanciare chiari segnali a questi signori e far capire loro che la pensa uguale uguale a loro. Intanto Confindustria ha un nuovo segretario e anche lui ha lasciato intendere che se il pubblico invaderà il privato, sarà guerra. Ma questa guerra chi la vuole combattere? Non le destre di ogni tendenza, e neppure la maggioranza, con la differenza che dentro Pd e M5s c’è chi si turerebbe il naso per mettere lo Stato al servizio di una specie di new deal. Non per convinzione, ma per laica rassegnazione. Da qui tutti gli sbandamenti di queste forze in Italia come in Europa e l’irresistibile tentazione di scomporre tutto per ricomporre, cioè di fare un governo sostenuto dalle forze politiche espressione degli interessi di quei pezzi della borghesia favorevoli a una certa ricetta a scapito delle altre, presumibilmente la peggiore visti i numeri in Parlamento e quello che scrivono i pennivendoli nella grande stampa. I movimenti dei soliti sono in atto. Franceschini e Giorgetti, per esempio. E il navigatissimo Casini non a caso si mostra ben informato. Riusciranno? Se sì, ovviamente la giustificheranno con la retorica dell'”unità nazionale” e dell’emergenza, ma sarà ancora più ovviamente il solito comitato di affari della borghesia aggiornato ai tempi e senza passare dalle elezioni, non per profilassi, ma perché l’opinione delle masse non sono previste né in economia né tanto meno in politica. E ora tornate a disegnare arcobaleni.

Costituzione vivente, sospesa o in via di sospensione?

«L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.
La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».

Lo sappiamo tutti, è il primo articolo della nostra gloriosa Costituzione. È la premessa di ciò che siamo e l’aspirazione di quello che vorremmo essere. Non è una mera descrizione, ma l’indicazione che l’Italia è prima di tutto una comunità politica vivente fatta di persone e valori che si organizza. E si organizza quando è corpo elettorale, certo, ma anche quando anima i partiti e i sindacati e le forme sociali per perseguire scopi particolari o generali, ma sempre improntati ai valori rivoluzionari di libertà, eguaglianza e solidarietà. Congiuntamente. Tutto questo è Repubblica.
Per essere poi democratica, la nostra Repubblica ha bisogno di fondarsi sul suffragio universale, ovvio, ma soprattutto sulla dialettica dei poteri e dei contropoteri. La Repubblica è democratica se fondata su un processo decisionale o di governo dove la comunità politica o popolo è sia potere costituente che potere costituito. In pratica la prima e l’ultima parola spetta al popolo perennemente sovrano che decide secondo il principio della maggioranza. E se il popolo-comunità delega dei poteri alle istituzioni, questi saranno subordinati alla legge. È il cosiddetto Stato di diritto.

Scusate la rapida lezioncina di diritto costituzionale, ma qui mi pare occorra ripartire dai fondamenti e dal nostro comune fondamento.
La situazione eccezionale da Covid-19 richiede sforzi eccezionali, ma non può ammettere eccezioni. Oserei dire che proprio quando tutto l’ordinario salta, la Costituzione deve essere ancora più salda. Eppure….
Eppure qualcosa non torna. Il Parlamento espressione suprema della nostra democrazia prima si è automutilato decidendo di riunirsi una sola volta la settimana col 55% dei suoi membri e poi ha deciso di non controllare e indirizzare il governo.
Il governo a sua volta ha visto sparire dalla scena pubblica tutti i suoi membri per fare del Presidente del Consiglio dei Ministri una sorta di Padre della Patria che vede e provvede.
La dialettica politica e di potere è dunque sparita. Neppure il Ministro della Salute sembra darsi da fare per parlare alla cittadinanza. Fa direttamente tutto Conte, magari con un video affidato in esclusiva all’azienda americana privata Facebook invece che alla Rai. La Repubblica parlamentare si sta trasformando in presidenziale de facto e nel modo peggiore, senza dibattito alcuno e senza neppure la minaccia di un’occupazione straniera alla Vichy.
Come se non bastasse, il governo si sta sottraendo al controllo degli altri organi costituzionali (Presidenza della Repubblica, Corte Costituzionale) deliberando misure drastiche di restrizione delle libertà costituzionali non mediate Decreto Legge, ma con un semplice Decreto Ministeriale, cioè quel DPCM che andrebbe usato solo per semplici misure amministrative, roba che al più potrà essere giudicata da un TAR.
Il liberale Stato di diritto sta saltando. Sia chiaro: la salute degli italiani va tutelata e le misure adottate spero siano quelle giuste e prese al momento giusto, ma vanno decise da tutti e con tutti nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Non credo sia in atto un golpe volontario di una cricca di antidemocratici. Però penso che così richiamo di fare la fine della rana in pentola che non scappa solo perché non si rende conto che un grado alla volta l’acqua che la idrata si sta trasformando nel brodo che la ucciderà.
Ecco dunque che le mie ansie dopo quelle sanitarie per i nostri corpi biologici vanno allo stato di salute del nostro corpo politico. Cosa stiamo evocando e avallando senza battere ciglio? Non c’è il rischio che governo e Parlamento con atti e omissioni stiano facendo gli apprendisti stregoni che evocano con leggerezza eccezioni che potrebbero diventare, anche solo in parte, le regole di domani? Non dimentichiamoci che siamo il paese che almeno al 40% si riconosce nell’estrema destra e che fra una settimana si apprestava a modificare la Costituzione per creare un mini-Parlamento. Che siamo il paese dove ci sono Presidenti della Regione e Sindaci che fanno a gara fra loro e col governo a chi per primo emette ordinanze “maschie” che occultino e compensino la vacanza di idee e strutture sanitarie con “soluzioni” da Rambo della cattedra.

In questo contesto si può e si deve chiudere un po’ tutto per interrompere il contagio, a cominciare dalla fabbriche di beni non prioritari, ma non si possono chiudere gli occhi e la Repubblica democratica, pena risvegliarci in un incubo. Praticamente per lo stesso motivo per cui per decenni l’Italia ha resistito formalmente dalla tentazione della sospensione della Costituzione per combattere il terrorismo politico e mafioso e alla fine ha dimostrato che aveva fatto bene.

Centralismo autocratico opaco e bonapartismo digitale conclamato nel M5s

Dall’8 agosto nel M5s si sono puntualmente dimenticati di Rousseau. La decisione più grossa (chiudere con Lega e aprire al Pd) l’hanno presa in otto (!) il 18: Luigi Di Maio, Beppe Grillo, Davide Casaleggio, Roberto Fico, Alessandro Di Battista, Paola Taverna e i capigruppo M5S di Camera e Senato Francesco D’Uva e Stefano Patuanelli. E l’hanno presa vis a vis a casa di Grillo senza streaming. Ognuno fa funzionare le organizzazioni politiche come ritiene più opportuno, purché sia salvaguardato il principio di uguaglianza. Qui abbiamo ancora una volta un Casaleggio che si fa spalleggiare da Grillo per imporre una linea ai sei grillini più importanti che poi la imporranno agli altri a colpi di post, con Di Battista nel ruolo prezioso di bastian contrario.

La novità di ieri sera è l’annuncio di Di Maio che “l’ultima parola spetterà agli iscritti” del m5s tramite Rousseau. Potevano chiedere agli iscritti negli ultimi 20 giorni se erano d’accordo ad aprire al Pd, se era meglio fare pace con Salvini, se era meglio tornare al voto subito, se preferivano Conte o Di Maio premier, se volevano aggiungere o togliere qualche punto ai 10 stilati da Di Maio (?), se volevano che i deputati prendessero solo gelati alla frutta. Hanno fatto tutto da soli peggio di una qualunque Forza Italia, e ora sono pronti a consultare la base in modo vincolante nel momento più inopportuno: tra quando il Presidente del Consiglio incaricato ha pronta la lista dei ministri concordata con la maggioranza e la salita al Quirinale per mostrarla al Presidente della Repubblica. Cioè il M5s sarebbe pronto a rimangiarsi tutti gli accordi un attimo prima delle nomine presidenziali, posto che Mattarella non abbia nulla da ridire sui nomi proposti dal premier. A parte che non ricordo un voto Rousseau analogo nel maggio 2018, ma mi chiedo se Casaleggio non sia preoccupato della potenziale figuraccia con tanto di sgarbo istituzional-costituzionale perché forse può manipolare qualunque consultazione on line trasformandola in una ratifica plebiscitaria, o se sia un escamotage per prendere ancora tempo e poi far saltare tutto con l’alibi della volontà della base. Che poi in effetti l’una non escluderebbe l’altra. C’è di certo che non vorrei essere nei panni di Mattarella e Zingaretti alle prese con questa parodia della democrazia, neanche divertente.

E se nel 2018 avessimo votato col proporzionale? E se i seggi fossero stati 400?

Il 20 agosto 1993 cessava di essere in vigore la legge elettorale proporzionale che sostanzialmente era rimasta inalterata dal 1946. Da allora l’Italia ha conosciuto il maggioritario di Mattarella, quello di Calderoli, quello di Calderoli corretto dalla Consulta, quello di Renzi mai applicato e infine il proporzionale corretto dall’uninominale di Rosato attualmente in vigore. In molti adesso vorrebbero tornare a un proporzionale almeno simile a quello che si applica nelle elezioni europee, se non a quello applicato da 13 anni nella circoscrizione estera. Cosa cambierebbe? Facciamo un gioco: usando i risultati delle circoscrizioni delle elezioni politiche del 2018, proviamo a riattribuire i 630 seggi della Camera dei Deputati usando il proporzionale abrogato nel 1993 (artt. 77 e 83 del DPR 361/1957). Questo il risultato:

2018prop

Si tratta di un’applicazione rigorosa della legge elettorale, ma pur sempre astratta. Va infatti ricordato che le liste del 2018 si sono formate sulla base del contesto del Rosatellum che prevede sbarramenti e possibilità di alleanze. Con un proporzionale senza sbarramenti, probabilmente Psi e Verdi, per esempio, non avrebbero fatto una lista insieme e da separati avrebbero preso più voti. Chissà. Così come gli allora costituenti di Liberi e Uguali non è detto che avrebbero fatto le medesime scelte unitarie. Infine le singole battaglie elettorali nei collegi uninominali hanno per necessità visto marciare insieme due coalizioni che al proprio interno cercavano di non rivaleggiare troppo. Se quelle coalizioni non fossero state fatte, la competizione elettorale del tutti contro tutti quanto avrebbe alterato i risultati? Ecco perché per quanto siamo seri, resta poco meno di un gioco, una proiezione su uno dei tanti mondi possibili.

Se poi si fosse già applicata la riduzione dei seggi da 630 a 400, facendo le debite proporzioni a norma di legge nelle varie circoscrizioni in base alla popolazione legale, i risultati sarebbero stati questi:

CAMERA400

Una crisi da risolvere o da spettacolarizzare?

Sinceramente questa cosa di voler parlamentizzare la crisi aspettando come minimo il 13 agosto la capisco, ma non la giustifico. Avrei preferito il metodo consueto di riunire oggi il cdm e poi mandare subito Conte a dimettersi aprendo da domani le consultazioni. A maggior ragione visto i tempi stretti per poter eventualmente votare a fine ottobre e limitare i danni economici al paese. Invece mi sa che si vuole preferire un teatrale e grottesco showdown in diretta tv come incipit di campagna elettorale davanti all’elettorato ferragostano in canotta e melone. Neanche fosse il Festivalbar.